Gli studi clinici controllati randomizzati (randomized controlled trial, RCT) sono studi sperimentali che permettono di valutare l’efficacia di uno specifico trattamento in una determinata popolazione.
Con il termine trattamento si intendono convenzionalmente non solo le terapie, ma tutti gli interventi (diagnostici, di screening, di educazione sanitaria) o anche l’assenza di intervento.
Questo tipo di studio si caratterizza per essere:
1. sperimentale (trial): le modalità di assegnazione dei soggetti alla popolazione da studiare vengono stabilite dallo sperimentatore. Una volta reclutata la popolazione, sulla base di tutte le variabili di significato prognostico noto considerate dal ricercatore (natura e gravità della malattia, età, parità…), si verifica l’effetto di un trattamento (ad esempio, la somministrazione di un farmaco) confrontandolo con l’effetto di un altro diverso trattamento (ad esempio, un altro farmaco, nessun farmaco o un placebo).
2. controllato (controlled): i soggetti coinvolti nello studio sono suddivisi in due gruppi: il gruppo o braccio sperimentale che riceve il trattamento, e il gruppo o braccio di controllo che riceve un diverso o nessun trattamento. Se la sperimentazione è eseguita correttamente , i due gruppi risultano il più possibile omogenei, almeno per tutte le variabili considerate, e quindi comparabili.
3. randomizzato (randomized): l’assegnazione del trattamento ai soggetti deve avvenire con un metodo casuale (random). La randomizzazione aumenta la probabilità che altre variabili, non considerate nel disegno dello studio, si distribuiscano in maniera uniforme nel gruppo sperimentale e in quello di controllo. In questo modo, le differenze eventualmente osservate tra i due gruppi possono essere attribuite al trattamento.
La randomizzazione da sola non garantisce però che i gruppi così generati siano perfettamente identici e che le differenze osservate non siano dovute a sbilanciamenti casuali tra i gruppi. L’analisi statistica tiene conto di questa possibilità e la quantifica nella presentazione dei risultati.
La randomizzazione può essere eseguita con diverse modalità. Il metodo più rigoroso implica l’applicazione di protocolli precisi, in modo che lo sperimentatore non possa prevedere il trattamento assegnato a ciascun paziente (serie numerata di buste chiuse, attribuzione telefonica da un ufficio centrale indipendente dalla sede di sperimentazione, uso di apposite tavole di numeri casuali…). Si parla invece di “quasi-randomizzazione” quando il metodo applicato non garantisce una casualità assoluta e non può quindi essere esclusa una eventuale interferenza dello sperimentatore (ad esempio, quando l’attribuzione si effettua alternando i pazienti, oppure basandosi sulla data di nascita o sul numero di cartella clinica).
La randomizzazione può anche essere condotta per gruppi di pazienti, in questo caso si parla di randomizzazione per cluster.
Quando possibile, né lo sperimentatore né i soggetti coinvolti sono a conoscenza del trattamento assegnato (cioè entrambi sono in cieco, da cui il termine “doppio cieco”) per ridurre la probabilità che ne siano influenzati. I pazienti potrebbero comportarsi in maniera diversa a seconda del gruppo al quale appartengono e gli operatori sanitari potrebbero valutare diversamente le loro condizioni (ad esempio in senso migliorativo se hanno molte aspettative nel trattamento sperimentale).
Etica dei trattamenti randomizzati
L’idea di assegnare trattamenti randomizzati ai pazienti è estranea alla mentalità del medico, che è educato piuttosto a personalizzare la terapia.
La liceità etica della randomizzazione e i suoi limiti richiedono perciò una breve discussione.
Il presupposto eticamente obbligatorio della randomizzazione è l’ipotesi che i due trattamenti a confronto
abbiano probabilità approssimativamente equivalenti di riuscire efficaci in quella categoria di pazienti a cui
si rivolge la sperimentazione “equipoise”, “uncertainty principle” .
Questo presupposto è egualmente valido per chi ha in mente di progettare un trial e per i pazienti che vengono reclutati per partecipare a un trial. Come è stato scritto, se un clinico è a conoscenza o ha delle fondate motivazioni per ritenere che un braccio dello studio sia superiore ad un altro, eticamente non può partecipare allo studio. La premessa a un trial è dunque l’onesto riconoscimento di non sapere quale – fra due possibili trattamenti – è quello preferibile per i pazienti con una data malattia.
In questa condizione la randomizzazione diventa eticamente accettabile; inoltre, poiché i pazienti inclusi in un trial godono in genere di una attenzione maggiore dei pazienti della pratica corrente, la partecipazione a un trial può essere la migliore opzione in mancanza di un trattamento di ben documentata efficacia.
L’uso del placebo
L’uso del placebo è eticamente giustificato se non è disponibile per il gruppo di controllo alcuna terapia di
efficacia consolidata; a questo proposito si rimanda alle linee guida per l’istituzione ed il funzionamento
dei Comitati Etici, Allegato 1 al D.M. 18/3/97.
L’uso del placebo è tuttavia non eccezionale anche in trial per i quali sarebbe disponibile un trattamento comparativo per i controlli.
Gli esempi che potrebbero essere citati sono molti; per brevità se ne riporta solo qualcuno. Il trial ASSET
di trombolisi con TPA nell’infarto miocardico, valutato contro placebo benché già due grandi trial avessero
dimostrato l’efficacia della streptokinasi ; altri trial sono riportati da Rothman ; più recentemente,
nel terzo mondo, sono stati condotti trial di vari trattamenti anti-HIV contro placebo, in decine di migliaia di
donne gravide per la prevenzione dell’infezione perinatale, benché fosse ben dimostrata l’efficacia preventiva
di un regime di zidovudina.
L’uso del placebo quando già esiste una terapia di consolidata efficacia per il confronto con trattamento
sperimentale è non solo non etico, ma anche illogico: in queste condizioni infatti un medico è interessato a
sapere se il nuovo trattamento è migliore di quello già noto, non di una ipotetica linea zero.
La ragione principale dell’uso improprio del placebo consiste nella maggior facilità di dimostrare l’efficacia
di un nuovo trattamento rispetto a un placebo inefficace; il confronto fra due trattamenti efficaci richiede
infatti per mettere in evidenza una possibile differenza a favore del nuovo o l’equivalenza fra nuovo e vecchio trattamento che il numero di pazienti inclusi nella sperimentazione sia nettamente maggiore.
Consenso informato
Il trial è una combinazione (o compromesso) fra l’interesse del paziente e quello futuro della comunità che
beneficerà dei trattamenti efficaci via via acquisiti.
Sarebbe pertanto non etico includere un paziente in un trial senza chiedergli se accetti il compromesso. Inoltre,
il consenso informato è una misura di tutela per i pazienti contro trial non etici, benché, come si vedrà, non sia sufficiente a questo scopo.
I problemi del consenso informato sono numerosi, ma quattro sono immediatamente evidenti:
1. Richiedere il consenso al trattamento sperimentale non è una garanzia sufficiente di eticità e di rispetto
per il paziente: lo dimostra il fatto che il consenso informato dei pazienti era richiesto in quasi tutti gli esempi
di trial, sopra citati, che prevedevano l’uso non etico del placebo, e in molti altri simili, come nel caso di un trial
del foscarnet contro placebo (e non contro ganciclovir) nella retinite da CMV a rischio di cecità – in pazienti
con AIDS.
Come riportato nelle linee guida per ’istituzione ed il funzionamento dei Comitati Etici (Allegato 1 al D.M.18/3/97), il consenso informato è dunque una forma imperfetta di tutela dei pazienti ammessi nei trial.
2. Il testo del consenso informato sottoposto ai pazienti per la firma è spesso prolisso, infarcito di termini tecnici, sostanzialmente poco comprensibile; gli stessi concetti di sperimentazione applicata alla terapia e di randomizzazione sono estranei alla mentalità comune. Il consenso informato è dunque spesso non troppo “informato” e questo può creare un bias che tende a selezionare i pazienti più istruiti o più docili per la partecipazione al trial, limitandone la generalizzabilità.
3. Non pochi pazienti con malattie fatali (cancro, per es.) possono preferire di non essere pienamente informati della prognosi inesorabile della loro condizione; infliggere a questi pazienti l’informazione necessaria al consenso può essere inutilmente crudele.
4. In situazioni di emergenza (infarto miocardico acuto, ematemesi per es.) le spiegazioni verbali e la lettura del testo scritto di un consenso informato ritarderebbero il trattamento e accentuerebbero lo stress del
paziente; non è privo di interesse il fatto che il consenso informato non era richiesto ai pazienti ammessi ai
trial di trombolisi GISSI 1 e 2.
Questi problemi e altri omessi per brevità spiegano le riserve antiche e recentissime espresse sull’uso acritico e indiscriminato del consenso informato e possono giustificare alcune indicazioni:
1. Avere la massima cura per il testo che si propone ai pazienti per la firma: dovrebbe essere breve, espresso in termini semplici, chiari e non contenere termini medici non esplicati; la comprensibilità del testo dovrebbe essere verificata sottoponendolo a persone non dell’area sanitaria, di cultura comparabile a quella dei pazienti candidati al trial.
2. Accompagnare il testo scritto con spiegazioni verbali esaurienti e non affrettate.
3. Se possibile coinvolgere il medico di fiducia. I problemi etici dei trial non sono solo quelli sopra discussi, e non sarebbe possibile discuterli esaurientemente in questa sede. Esempi di trial non etici implicano procedimenti invasivi di monitoraggio che non sarebbero necessari né utili per un paziente nella pratica corrente; altri nei quali il disegno in doppio cieco ha indotto a eseguire nei controlli procedimenti invasivi che simulavano quelli terapeutici eseguiti nei pazienti assegnati al trattamento sperimentale (endoscopie non seguite da sclerosi delle varici esofagee in un trial di scleroterapia per la prevenzione del risanguinamento da varici nei cirrotici.
La valutazione degli aspetti etici dei trial rimane pertanto in buona misura affidata alla sensibilità e alla capacità critica di chi analizza il disegno del trial.
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