Le diverse forme di demenza
Esistono diverse forme di demenza, che si distinguono in base alla progressione della malattia.
Le demenze possono essere di tipo reversibile e irreversibile.
Le forme reversibili rappresentano una piccola percentuale; i deficit, in questo caso, sono secondari a malattie o disturbi a carico di altri organi o apparati. Curando in modo adeguato e tempestivo queste cause anche il quadro di deterioramento regredisce, e la persona può tornare al suo livello di funzionalità precedente.
La maggior parte delle demenze è di tipo irreversibile. Queste si distinguono in forme primarie e secondarie.
Le forme primarie sono di tipo degenerativo e includono la demenza di Alzheimer, quella Fronto-Temporale e quella a Corpi di Lewy.
Fra le forme secondarie la più frequente è quella Vascolare. Le demenze irreversibili, a livello sintomatologico, sia nella fase iniziale sia parzialmente in quella intermedia, sono ben caratterizzate e distinguibili tra loro. Nella fase avanzata le differenze si assottigliano fino a scomparire del tutto.
Alzheimer: come si riconosce
Di tutte le demenze, quella di Alzheimer è la forma più diffusa (50-60%). L’insorgenza dei sintomi è graduale e il declino delle facoltà cognitive è di tipo progressivo.
I deficit non sono ascrivibili ad altre condizioni neurologiche, sistemiche o indotte da sostanze, e non si manifestano nel corso di un delirium. I deficit cognitivi devono essere confermati dai risultati di alcuni test neuropsicologici.
La diagnosi è posta “per esclusione”, in assenza di altre cause che possano spiegare l’insorgenza della malattia. È effettuata soprattutto con informazioni clinico-strumentali e il suo grado di attendibilità è molto elevato (85-90%). Tuttavia, si parla sempre di diagnosi di demenza di Alzheimer probabile.
La diagnosi certa è effettuabile solo attraverso una biopsia cerebrale in vivo o post-mortem. La valutazione dei tessuti cerebrali dei malati permette di evidenziare la presenza di alcune proteine, o corpuscoli, che rappresentano l’unica prova certa della malattia.
Ad oggi non esistono esami per determinare in modo certo la probabilità di sviluppare questa malattia. Da molti anni si sta cercando di definire la cosiddetta “fase preclinica” della demenza di Alzheimer. Il tentativo nasce dall’esigenza di migliorare le conoscenze sulle caratteristiche della demenza per definire possibili strategie terapeutiche.
Sono state date molte definizioni di questa fase, attualmente la più usata è il Mild Cognitive Impairment (MCI). Purtroppo le caratteristiche riconosciute come proprie di questa entità sono ancora poco chiare e la conversione dell’MCI in demenza è controversa.
Accanto ai soggetti con MCI che sviluppano la malattia, ve ne sono altri che rimangono stabili e in circa il 30% dei casi si è osservata una regressione dei sintomi.
Alzheimer: le cause e l’evoluzione della malattia
Le cause che portano allo sviluppo della demenza di Alzheimer non sono ancora completamente chiarite. I meccanismi coinvolti sono molteplici. Dal punto di vista biologico si osserva una progressiva morte (atrofia) delle cellule cerebrali, i neuroni.
Questo processo avviene normalmente anche nell’anziano in buone condizioni. Nei malati di Alzheimer però l’atrofia è più marcata e si diffonde più rapidamente rispetto ai soggetti sani.
Le cause di questo processo non sono ancora del tutto note, sebbene sia ormai certa la sua associazione con la presenza quantitativamente anomala nel cervello di depositi di sostanze quali la beta amiloide e la proteina Tau.
Solo in rarissimi casi la demenza di Alzheimer è di tipo ereditario. Nel mondo si conoscono un centinaio di famiglie affette dalla malattia.
Questa forma, che si sviluppa prevalentemente nella fase pre-senile (33-65 anni), si manifesta in tutte le generazioni della famiglia che ne è affetta.In questi casi lo sviluppo della patologia sembra sia legato alla mutazione di alcuni geni che provocano la produzione di alcune proteine patogene (Presenilina 1 e 2; APP: Proteina Precursore dell’Amiloide).
L’evoluzione dei sintomi nella malattia di Alzheimer segue un gradiente gerarchico con interessamento progressivo delle funzioni cognitive, dalle complesse alle più semplici.
Nelle prime fasi sono intaccate le capacità di apprendimento di nuove conoscenze, le competenze lavorative e le attività socialmente complesse.
Con il progredire della malattia, la persona non è più in grado di svolgere le attività di base della vita quotidiana quali, ad esempio, l’igiene personale e l’alimentazione.
Nelle fasi avanzate sono intaccate le capacità motorie come la deambulazione e la deglutizione.
La durata media della malattia è di 10-15 anni e la morte nella maggior parte dei casi è dovuta all’insorgenza di altre patologie, alle complicanze dell’allettamento e all’aggravarsi delle condizioni cliniche generali. La demenza infatti accentua la fragilità globale della persona, comportando un aumento delle patologie che la affliggono e un aumento del rischio di mortalità.
Fonte: “ALZHEIMER conoscere la malattia per saperla affrontare” – anno 2009
Assistere un malato di Alzheimer è disagevole, comporta un disorientamento ed un senso di frustrazione costanti. Ecco perché sono così ingenti i costi sociali complessivi, perché si riverberano pesantemente sulle famiglie dei pazienti, nonostante il meritorio lavoro di organizzazioni come la Federazione Alzheimer Italia e l’Associazione Italiana Malattia di Alzheimer.
Noi abbiamo scelto di avvicinarci alla malattia andando sul campo, raccogliendo il punto di vista di un OSS, Operatore Socio-Sanitario che lavora proprio in una struttura ad hoc. Un modo per capire da vicino cosa vuol dire assistere un malato di Alzheimer, cosa si fa in concreto contro questa patologia, e per dare giusto rilievo ad una professione sanitaria poco conosciuta e valorizzata, ma divenuta rilevante nel nostro panorama sanitario.
Massimo, tu lavori in una nota casa di riposo di Treviso come operatore socio sanitario (OSS) e nello specifico lavori con persone con l’Alzheimer.
Per l’esattezza lavoro con persone con demenza. In realtà non tutte le demenze sono Alzheimer, ne esistono di tanti tipi. Le differenze consistono, a livello di sintomatologia, nel fatto che gli effetti compaiono con una sequenza diversa e non ci sono tutti; mentre a livello fisiologico le differenze sono estremamente sostanziali, ma non mi sembra il caso di entrare nello specifico. La gente di solito non è in grado di fare le necessarie distinzioni, questa è competenza di chi diagnostica, cura e assiste queste persone; è altresì competenza, per diritto, dei familiari o caregiver della persona interessata. Le residenze per persone con demenza accolgono tutte le persone che hanno diverse demenze e differenziano per ciascuno non solo il tipo di terapia farmacologica ma anche l’approccio alla persona nelle varie faccende della quotidianità.
Si parla di Alzheimer come male del secolo, è davvero così? C’è davvero da aver paura?
Come per tante altre malattie in passato, ad un certo punto scoppia il panico generale. In realtà l’Alzheimer è sempre esistito, solo che non era ancora stato identificato. Grazie ai progressi della scienza solo ora è una malattia conosciuta e riconosciuta, per lo meno un po’ di più di qualche anno fa. Ci sono comunque ancora molta confusione e paura a riguardo. Solitamente si ha paura di ciò che non si conosce… La soluzione è una sana e serena informazione, intanto. Poi, per chi dovesse assistere un malato di Alzheimer, ad oggi l’Asl in cui lavoro, in collaborazione con l’Istituto che regge la casa di riposo e varie associazioni di volontariato, offre una ampia gamma di servizi ad hoc per ogni tipo di esigenza, e anche occasioni di informazione e conoscenza. Esperienze del genere ci sono anche in altre parti d’Italia. A tutto ciò, va aggiunto un accompagnamento psicologico da parte di personale qualificato: non si entra in terapia, per carità! Ma c’è bisogno di metabolizzare ciò che sta succedendo.
A che punto è la situazione in Italia e in Europa secondo te?
In Europa all’avanguardia ci sono Gran Bretagna, Olanda e paesi scandinavi, a livello sia di ricerca scientifica sia di welfare e di opportunità per chi soffre di demenza. Anche gli stipendi di chi lavora nel socio-sanitario sono molto più consistenti. Perché lì il welfare è un investimento, non un problema come si crede da noi. In Italia, comunque, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna sono più avanti rispetto ad altre regioni, quelle del sud in particolare. Ma c’è in ogni caso tanta strada da fare a questo proposito, e purtroppo questo momento economico non ci aiuta.
Tu, come OSS, come operi con queste persone?
Oltre ai LEA, i livelli essenziali di assistenza (igiene personale, alimentazione ecc.), cerco, insieme ai colleghi, di far vivere queste persone nel miglior modo possibile, di dar loro una qualità di vita discreta, attraverso attività che li facciano sentire a loro modo realizzati, li rendano partecipi della vita comune, li facciano sentire utili, indipendenti, vivi, li lascino liberi di agire e muoversi, anche quando sbagliano e fanno solo pasticci. Il tutto con ampi margini di sicurezza: nostri compiti sono anche il controllo e la sorveglianza.
Come ti rapporti a queste persone e alla loro malattia da un punto di vista umano?
Il mio è un approccio professionale, che parte dalle conoscenze acquisite e dall’esperienza decennale che ho a riguardo. Mi rapporto con un alto rispetto della persona e della sua storia, anche se in quel momento l’individuo in questione non sembrerebbe nel suo momento di massima dignità. E proprio quest’ultima è una parola chiave: il rispetto della dignità di una persona, che potrebbe non sapere nemmeno chi è e cosa sta facendo in quel momento, è la mia legge assoluta. Ho a cuore le persone, i loro familiari e mi lascio coinvolgere ma non fino in fondo: la lucidità e il distacco sono fondamentali per l’obiettività nel servizio. Diverso sarebbe se fossi un familiare: probabilmente vivrei gli stessi sentimenti di fatica, non-accettazione, sofferenza che vedo in molti familiari.
Ma che figura è quella dell’OSS? Ne abbiamo così bisogno nel nostro sistema socio sanitario?
È una figura che esiste da parecchio tempo ma è ancora poco conosciuta e riconosciuta. Parte dal sostituire l’infermiere generico ma in realtà lo supera e lo porta a perfezione. Secondo me, negli ospedali resta una figura di collaborazione nei reparti, ma in strutture e servizi socio-sanitari l’OSS è quella figura trasversale che non è né infermiere né psicologo né fisioterapista né educatore ma è un po’ tutto allo stesso tempo (e anche di più!). È una figura ancora poco conosciuta, sfruttata, valorizzata, anche poco accettata in alcuni ambienti. Pensa che lottiamo da anni per avere un nostro albo professionale e ancora non l’abbiamo ottenuto!
Un’ultima battuta: Berlusconi sta facendo servizio in una casa di riposo con persone con demenza…
Mi fa molto piacere! Non per la persona in sé, quanto per il fatto che un politico toccherà con mano ciò che per noi è pane quotidiano. Lui non farà gran che di concreto ma finalmente capirà (forse) il ruolo degli operatori, capirà (forse) che cosa significa con assistere un malato di Alzheimer e capirà (forse) cosa vuol dire fare questo lavoro per poche centinaia di euro!
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